Lo studio del Raja Yoga
Tutta l’attività umana si basa sulla percezione, sia interiore che esteriore, che l’uomo ha di sé e della vita. Penso sia abbastanza condivisibile il fatto che l’attività emotiva e mentale condiziona grandemente la capacità percettiva, al punto di distorcerla in modo significativo. La storia individuale di ognuno di noi è costellata di episodi nei quali semplici ‘lucciole’ sono state prese per ‘lanterne’, con tutte le conseguenze del caso. Non è quindi casuale che nella tradizione indiana la vita sia descritta come Maya, illusione, per il fatto che la percezione umana diviene capace di restituirci la realtà così com’è solo conseguendo quello stato definito come Samadhi, rimanendo altrimenti ancorata alle distorsioni prodotte dagli infiniti ‘veli’ costituiti dalla nostra produzione di emozioni e di pensieri.
Il percorso che ci propone Patanjali è per l’appunto quello che ci consente di superare quelle condizioni interne alla nostra coscienza in grado di distorcere la nostra visione del mondo. Questo per metterci nelle condizioni di sperimentare il Samadhi, lo stato nel quale la nostra percezione della vita è assolutamente aderente allo stato di fatto delle cose. Incidentalmente poi, visto che questa realtà non perturbata corrisponde a quel modo dell’essere che i testi sacri indiani definiscono come Sat, Chit, Ananda – essenza, consapevolezza e beatitudine infinite-, possiamo affermare che, seguendo l’insegnamento dello yoga degli otto passi, l’essere umano può superare la sofferenza, determinata dalle modalità ordinarie ed illusorie della sua coscienza.
Compiere questo percorso in realtà significa vivere consapevolmente un lungo e difficile cammino di alchimia interiore in grado di farci comprendere il senso di tutta l’esperienza umana. Nella fattispecie il Raja Yoga fornisce, a chi lo desidera, tutta la strumentazione adeguata per compiere quest’ultimo passo all’interno del regno umano, quello che conduce all’illuminazione.
Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, i primi cinque passi sul sentiero dello yoga reale, riguardano quello che è considerato l’aspetto propedeutico a ciò che anche Patanjali ritiene essere il cuore di tutta la pratica. Regole e proibizioni, giusta posizione nella vita, controllo delle energie vitali e distacco dai sensi, questi sono i primi cinque passi. Attraverso la comprensione di questi mezzi, si acquisiscono la stabilità e la purezza necessarie per potere realizzare con profitto la parte più significativa del Raja Yoga, quella riguardante la concentrazione, la meditazione e l’estasi. Dharana, Dhyana e Samadhi, insieme chiamati Samyama, la disciplina, costituiscono la chiave di volta di tutto il sistema. Non sono riconducibili semplicemente a delle specifiche pratiche, che pure possono esistere, quanto piuttosto si riferiscono alla possibilità della mente umana di entrare in rapporto stabile e non disturbato con l’essenza della vita stessa.
Attraverso la concentrazione, Dharana, appuntata sulla forma, il praticante di Raja Yoga sviluppa la capacità di meditare, Dhyana, ossia comincia a percepire la qualità che sta al di là della forma. Questa percezione ‘extra-sensoriale’ inizia a far comprendere le vere strutture della vita e della coscienza, quelle che normalmente non sono percepite dall’attività sensoriale fisica. Così si sviluppano tutti quei siddhi, o poteri, di cui Patanjali ci parla nel terzo capitolo degli Yogasutra. Quando questa capacità di ‘essere’ in meditazione nella vita diviene stabile, allora si sperimenta il Samadhi, l’indifferenziato stato di non perturbazione, altrimenti chiamato estasi, illuminazione, nirvana, etc.
La cosa veramente significativa, ai fini di questo tipo di conseguimento, è come elabora i dati la nostra coscienza, ed in particolare che possibilità essa ha di essere più o meno aderente, dal punto di vista percettivo, alla realtà essenziale delle cose.
Se l’illusione è presente nella propria coscienza, questa lo sarà nel piccolo come nel grande, per cui ogni avvenimento del proprio esistere diviene assolutamente rilevante, ai fini della comprensione delle motivazioni del nostro agire. L’attenzione (o concentrazione), Dharana, agli impulsi che ci sospingono in azione, diviene la chiave di volta del sistema che Patanjali ci propone per comprendere la vita. Per capire il divario esistente tra l’idea che io ho di me stesso e ciò che veramente mi sospinge in azione devo per forza partire dall’attenzione al mio comportamento. Se voglio cambiare le componenti distruttive del mio essere devo prima divenirne consapevole, senza per forza dover pensare a supreme teologie.
Solo la pratica della comprensione di sé, con la realizzazione dell’innocuità del proprio comportamento, può condurre ogni essere umano al superamento della sofferenza, al compimento dello Yoga e al conseguimento di quello stato di imperturbabilità chiamato, in questa occasione, ‘Samadhi’.
Questa cosa la si può fare solamente vivendo, con attenzione, rispetto ed amore, la propria esistenza, tenendo presente che non è l’unica nell’universo, ma è tale proprio perché espressione dell’insieme di tutte le altre vite. È di questa unione, con se stessi e con tutto ciò che esiste, che si occupa lo yoga, anche e soprattutto il Raja Yoga. Pensate che ho sentito tante volte tanta gente dire che non ha tempo per meditare…